CONFINI IMPOSTI ALLA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE DEGLI ARTISTI. IL CASO MIMMO RUBINO, ANDRES SERRANO E DAVID WOJNAROWICZ

WORK WILL MAKE YOU FREE
Nei giorni scorsi, Mimmo Rubino, artista lucano di 32 anni, ha fatto molto parlare di sé. Nella notte tra il 24 e il 25 aprile, infatti, ha posizionato la sua installazione “Work will make you free” nel quartiere del Pigneto a Roma. Il materiale, il ferro, e la frase ricalcano l’insegna all’ingresso del campo di concentramento di Auschwitz. La lingua (l’inglese invece del tedesco), la linea dell’arco e il carattere più moderno segnano le differenze con il precedente nazista.
La lingua (l’inglese invece del tedesco), la linea dell’arco e il carattere più moderno segnano le differenze con il precedente nazista. L’opera ha inevitabilmente scatenato una bagarre, poiché il rimando era talmente evidente da suscitare il sospetto che l’installazione fosse un’opera di ispirazione neonazista e antisemita. L’autore ha in seguito voluto chiarire la propria posizione e ha dichiarato di essere stato frainteso. L’intento di Mimmo Rubino, noto anche come Rub Kandy, non aveva niente a che vedere con la rivendicazione di passati ideali: lo street artist voleva solo offrire un input alla società per una profonda riflessione su sé stessa. L’idea alla base dell’opera consiste nella convinzione che oggi la società stessa sia diventata un lager, perché molti uomini e donne si trovano costretti a lavorare in condizioni vicine alla schiavitù. Ma non solo: in una paese con un tasso di disoccupazione e precariato così elevato come quello attuale, la frase, estrapolata dalla sua storicizzazione, suona anche vera. Insomma, il ragionamento sembra chiaro, il messaggio sotteso condivisibile. Qual è allora il problema? Il problema di Mimmo Rubino risiede nelle modalità e nella forma con cui ha deciso di esprimere la propria idea. Anche la tempistica non è stata delle migliori, se si considera che il 25 aprile si festeggiava proprio la Liberazione. Usare i simboli è rischioso, soprattutto se lo si fa con l’intento di provocare. Il limite tra provocazione e offesa è infatti molto labile. Oltrepassarlo significa rischiare di non essere compresi, di lasciar cadere il proprio messaggio nel vuoto delle critiche e delle interpretazioni. 

andres_serrano__piss_christ__1987_400
Andres Serrano, Piss Christ 

E che i simboli siano da maneggiare con cautela lo dimostrano anche le vicende intorno al Piss Christ di Andres Serrano. La fotografia risale al 1987, ma è di appena un paio di settimane fa la notizia di un vero e proprio attentato nei confronti di quest’opera, esposta ad Avignone nell’ambito della mostra I believe in miracles. Sabato 16 aprile circa mille persone hanno marciato attraverso la città fino alla galleria in segno di protesta e in difesa della propria religione. Quattro ragazzi, la mattina della Domenica delle Palme, si sono introdotti nella sede espositiva e hanno colpito con un martello il plexiglass che proteggeva la fotografia, per poi danneggiarla in modo irrimediabile, dopo aver minacciato gli uomini posti a guardia dell’opera in seguito alle intimidazioni ricevute da Yvon Lambert. Già ai tempi della sua prima comparsa, del resto, l’immagine creata da Serrano aveva trovato agguerriti oppositori, soprattutto nel mondo della politica statunitense, essendo ritenuta blasfema; nel 1997 poi, una grande retrospettiva sull’artista venne annullata a Melbourne, in seguito alla richiesta dell’arcivescovo cattolico George Pell e ad alcuni atti di vandalismo subiti dalla fotografia. Anche in questo caso, come in quello di Rubino a Roma, l’idea dell’artista fu (ed è ancora) totalmente fraintesa: la presunta blasfemia altro non sarebbe che una decisa denuncia dell’uso strumentale, spesso finalizzato a riscontri economici, che oggi molti fanno della religione cristiana. Pochi sono in grado di cogliere la provocazione, quando essa si cela dietro la trasfigurazione di un simbolo, carico di storia e dolore come l’insegna di Auschwitz, o forte della devozione di due millenni come il crocifisso. 

fotogramma_da_a_fire_in_my_belly_di_david_wojnarowicz_400
David Wojnarowicz, Fotogramma da A fire in my belly 

E della particolare attenzione di cui gode quest’ultimo è testimone anche il video “A fire in my belly” del polacco David Wojnarowicz, che rientrava nel percorso della mostra“Hide/Seek: Difference and Desire in American Portraiture”, presso la National Portrait Gallery della Smithsonian Institution, inaugurata lo scorso 30 ottobre. Nel mese di dicembre, lo Smithsonian, a causa delle rimostranze della Lega Cattolica, decise di rimuovere il video incriminato, che in una sua parte mostrava un crocifisso ricoperto di formiche. Per difendere la visibilità della mostra, che trattava il tema dell’omosessualità, già di per sé coraggioso, si preferì togliere quel video, che durava quattro minuti e che andava a ledere la sensibilità cattolica. 
Tutto questo dovrebbe indurre a riflettere sulla legittimità dell’uso dei simboli per esprimere le proprie idee e quanto questo ostacoli nello spettatore la ricezione del messaggio; ma anche sui confini che, ancora oggi, vengono imposti alla libertà di espressione degli artisti, che ricorrono a questi simboli per provocare, per stimolare un ragionamento e la possibilità di rimettere in discussione alcuni principi, o condizioni di vita attuali; in nessuno dei tre casi il simbolo era citato per offendere. Quanto poi l’eccesso di visibilità, di commenti, di discussioni intorno a un’opera sia salutare per la sua genuinità sarebbe argomento di un’ulteriore riflessione.


[valentina mariani http://www.teknemedia.net/magazine_detail.html?mId=8537]