Rub Kandy tra street art, videogame e anamorfosi. Di Giuliana Ricci

Un writer eretico alla ricerca delle sue molte anime
Come il poeta Fernando Pessoa, Rub Kandy ha molte identità ed altrettanti eteronimi – Home, Knokia, Superglass, Play – espressioni di una personalità artistica plurisfaccettata, ''schizofrenica'' (scherza lui sorseggiando il suo vino) sempre in cerca di nuove intersezioni: dalla fotografia analogica e digitale, all'aerosol art, dagli stencil, alla videogame art, fino alle grandi opere anamorfiche alla periferia delle città. Ho incontrato Mimmo Rubino - in arte Rub Kandy (ma non solo) – a Roma, in un localino tranquillo del Pigneto mentre fuori veniva giù il diluvio universale. E' arrivato con un cappuccio un po' francescano inzuppato di acqua, poi davanti ad un buon rosso e ad un piatto di stuzzichini lucani mi ha raccontato di sé, dell'adolescenza a Potenza, della sua vita nella Capitale, delle sue opere. 
Kandy, scrittura slang dell'acronimo KND – Kids Never Die, ''i bambini non muoiono mai'' -è caramella (per assonanza) e urlo di battaglia ad un tempo, adattissimo ad un Peter Pan che partirebbe subito per l'Isola che Non C'è. E' più di una tag: è un marchio di identità, un ''cognome'' che lega esperienze diverse di una ricerca che non ama prefissarsi un percorso, ma procede per analogie. Una sperimentazione che non teme di confrontarsi con forme e ''generi'' consolidati della street art (e non solo), ma lo fa con un'attitudine eretica che ne cambia le regole o, meglio, ne svela i trucchi. Come le sorprendenti anamorfosi negli spazi giganteschi dell'archeologia industriale (''Chiri'' e ''H the Mirror'') che utilizzano in maniera inedita, una tecnica cinquecentesca che permette, modificando le linee prospettiche di una figura, di disegnarla in modo che sia chiaramente visibile solo da un determinato punto di osservazione. L'anamorfosi, meccanismo atto ad ingannare la vista producendo un'illusione ottica, viene utilizzata da Rub kandy con un obiettivo diverso: diventa eretica, si rivela anziché nascondersi ed, in virtù di un elemento della realtà che rompe l'incanto, genera il dubbio, il cortocircuito percettivo.

GR: Partendo da elementi grafici molto semplici le tue Anamorphosis si proiettano negli spazi marginali, interstiziali della città e ne cambiano la percezione creando suggestioni visive intense ed astratte ad un tempo, in bilico fra street-art ed arte concettuale. La scelta del posto, l'idea, la realizzazione: insomma, come nasce un'anamorfosi ? 
RK: Spesso non ho un'idea esatta di quello che farò e di solito parto dalla ricerca del posto. In questo senso, Google Map, ha una funzione fondamentale: guardare la Capitale dall'alto mi permette di notare, al di là delle vie che noi comuni mortali frequentiamo, strade e zone che potrei non scoprire mai. Roma è famosa per essere una città stratificata, una città nella città: c'è la Roma dell'impero, del tardo impero, c'è la Roma medievale. Fra tutte queste intersezioni c'è anche – poco, perché non è una città di fabbriche – la Roma industriale e, di conseguenza, post-industriale: una serie di lotti che vivono in attesa che il palazzinaro di turno riesca a rilevarli, a metterci la mani sopra. Alcuni di essi rimangono, però, vuoti e abbastanza abbandonati da darti quella bellissima sensazione di possesso che si prova nei luoghi disabitati: l'idea, insomma, che quel posto – dopo esserti preso la briga e la responsabilità legale di rompere un cancello o di scavalcare un muro – sia tuo. 
Per quanto riguarda la realizzazione di solito mi concedo due o tre giorni per finire l'opera con calma. C'è la tranquillità di lavorare lontano dalla vista degli altri e in più il gusto fotografico di avere tutta una serie di linee geometriche che lavorando con un banco ottico, con una macchina fotografica di medio formato, producono risultati molto interessanti Poi, magari, mi ritrovo in un lotto di 5000mq con una fabbrica completamente in rovina. È lo spazio stesso a parlare, a suggerirmi l'idea: ha così tanto da dire che basterebbe fare una foto. Sono luoghi che conservano molte memorie stratificate: quelle un po' delinquenziali dei furti e delle macchine bruciate, quelle dei lavoratori, del sogno industriale andato in fumo, accanto alle tracce del movimento tekno, delle feste e dei rave. Spesso parto da elementi che già esistono, come in ''Chiri'' in cui una scritta sul muro dà, addirittura, il nome all'opera. Rivelo solo qualcosa che c'è già: tutto qui. A differenza degli artisti contemporanei che amo come Felice Varini e Georges Rousse che puntano su di un tipo di anamorfosi otticamente perfetta - un tipo di immagine volta a trarre in inganno -, la mia anamorfosi contiene quasi sempre (soprattutto negli ultimi lavori) degli elementi che ne smascherano la falsità.



GM: Hai parlato di Roma e del modo in cui la tua arte viene influenzata dal contesto urbano in cui nasce. Potenza e Roma: due città in cui hai vissuto e nelle quali hai lasciato delle opere. Similitudini e differenze. 
RK: Ho vissuto a Potenza fino a 19 anni, abitavo ancora con i miei. E' una città di provincia in cui conosci tutto di tutti in cui, tutto sommato, è facile vivere. Una giornata durava tantissimo, avevo il tempo di fare tutto ed era semplice, per me, entrare in contatto con qualsiasi altro artista presente: non era complesso farsi riconoscere, c'erano 10 artisti e 5 writer. E' la città della mia adolescenza. Roma è una nube metropolitana. Io ci vivo da 10 anni e ancora sono un ''senza identità''. Ci sono degli aspetti positivi, come il vantaggio dell'anonimato che mi ha permesso di realizzare opere impensabili, opere che in un contesto chiuso e ristretto come Potenza avrebbero condotto ad un arresto immediato. Dal punto di vista artistico, insomma, ho potuto sperimentare con il gusto di non avere più il peso di un ambiente di provincia. Ci sono, naturalmente anche aspetti negativi, come il fatto di non poter contare su nulla e di avere giornate che durano cinque minuti: perché vivere in un una metropoli – dopo una città come Potenza in cui avevo tutto sotto controllo- significa, anche, girare per le strade e rischiare di passare intere settimane senza incontrare una faccia amica per caso. E poi ti ritrovi con una persona in ascensore (che magari esce da 8 ore di lavoro) che improvvisamente ti racconta tutta la sua vita e diventate amici. Vivere a Roma è un po' come vivere in un film francese degli anni '70: si fanno incontri incredibili, rischi che uno sconosciuto si affezioni a te più di tua madre.


GR: ''The Snake!The Longest Life'' è un'opera di videogame-art, una nuova forma di espressione artistica legata alla diffusione capillare della tecnologia, altro ''genere'' di cui ti sei occupato. Ti va di parlarmi di questa opera? 
RK: L'idea nasce, come sempre, da una situazione reale. Avevo ricevuto in regalo un telefonino – era il 31.10 o il 32.10- all'interno del quale c'era un videogame ''The Snake'', uno dei più begli esempi di sintesi mai visti. E' una linea (che rappresenta il serpente) che si muove senza potersi fermare, all'interno di un rettangolo dal quale non può uscire. Lungo il percorso di tanto in tanto compaiono dei pallini di cibo che – in un modo utopico e senza attrito nel quale si cresce quanto si mangia, senza alcuna dispersione di energia- allungano proporzionalmente il serpente di pixel: quando è piccolo, appena nato ha molto spazio, vive, gioca ed ha poche possibilità di mangiarsi la coda o di sbattere contro i bordi; per ogni pallino che ingoia, la sua coda si allunga e cresce il suo passato; e così si ritrova a mezza età ed è costretto, un po' come noi, a mettere in ordine la sua vita. Perché non può smettere di crescere, non si può fermare, è condannato alla vita. Ho fatto una serie di esperimenti e poi ho realizzato ''The Longest Life'' il video più fortunato. Un tipo di lavoro volutamente grezzo, Lo-F i: mi sono chiuso una settimana in casa e mi sono ripreso mentre giocavo, in maniera totalmente analogica con una telecamerina fissata ad un imbracatura: Quindi è la sintesi di una serie di performance e non, come molti pensano, un prodotto completamente costruito al computer. Poi una sera ho sentito la canzone di Laurie Andersen – ''O Superman''- e su questa traccia ho montato ''The Snake! The Longest Life'': è l'intera vita di un serpente/linea che nasce e si sviluppa fino a riempire completamente lo spazio che lo circonda. Quando cresci all'interno di uno schermo, di confini da cui non puoi uscire ed invecchi, il passato diventa più oppressivo. Fino a quando anche la vita migliore, la più lunga -the longest life- finisce.



GR: L'affaire Banksy vs Bristol Museum. Negli ultimi anni la street art - dopo aver trasformato la città in una galleria a cielo aperto – ha iniziato il percorso inverso lanciandosi alla conquista del museo, il tempio della cultura istituzionale. Che ne pensi di questa nuova tendenza? E' solo un'altro trendy del mercato dell'arte? 
RK: In realtà non è una tendenza poi così nuova. Anzi direi che è presente fin dall'origine del fenomeno street art: penso a Keith Haring o a Jean Michel Basquiat che si presenta a Warhol in una tavola calda con i suoi lavori, approdando subito alle grandi gallerie di New York. Banksy era già entrato nei musei, in modo molto più eclatante, 10 anni fa quando appendeva clandestinamente una sua opera fra i pezzi della collezione esposta. Mi sembra che l'abbia fatto al British, la prima volta. Non ho potuto vedere la mostra del Bristol Museum dal vivo, purtroppo, ma ho guardato quel video così diffuso su Youtube. Ha invaso le sale con moltissime opere, diversissime e tutte molto interessanti: un lavoro notevole. Di Banksy non si può dire male, è un grande artista...è un artista alla Picasso che riempie il mondo delle sue cose, ultraprolifico. In realtà, a mio avviso, non è stato compreso fino in fondo l'aspetto realmente innovativo della sua arte: il fatto, cioé, di aver realizzato pratiche situazioniste utililizzando tecniche e strumenti della street art per elaborare un linguaggio personale -l'ironia come forma di opposizione all'autorità, il detournement, l'ordine che diventa disordine. La coda di Banksy si è sviluppata partendo da un approccio un po' superficiale... l'onda che si è generata dopo di lui ha concentrato la sua attenzione sull'uso dello stencil che è solo una delle tecniche da lui utilizzata e che esiste da sempre (con gli stencil si scrivevano i numeri civici, le insegne, gli avvisi). C'è stata un'esplosione di affiches, di invasioni urbane... ogni tipo di roba, stelline cuoricini teschietti gattini lupacchiotti. Però nessuno ha rifatto un evento così importante come quello di Banksy e delle opere mimetizzate nei più grandi e sorvegliati musei del mondo. 


GR: ''Duri e puri'' o inseriti nel gioco? Un bilancio finale sulla situazione attuale della Street Art. 
RK: Ora c'è molto manierismo nella street-art, è questo il problema: il pop up, i manifesti, gli stencil... Andiamo ad appendere i cuoricini in tutta Europa, in tutto il mondo, ma in realtà è guerrilla marketing, è branding, sono teorie pubblicitarie. La Nike, la Puma fanno la stessa cosa. Sono ribelli i writer anonimi che conservano il loro nome di strada (Internet è pieno di blog e prima c'erano le fanzine), ma lo street artist non è ribelle, è un artista integrato nella società dello spettacolo che fa guerrilla marketing. Lo street artist, nel 90% dei casi, viene fuori da una realtà borghese non dalla periferia urbana. Il writing era un fenomeno più popolare che portava la rabbia, invece lo street artist è qualcuno che, alla prima occasione, va a fare le scarpe per la Nike. 


GR: Quali sono i tuoi riferimenti nella vita personale e quotidiana e e quali le figure a cui guardi all'interno della storia culturale, del mondo dell'arte. Insomma hai dei ''maestri''?
RK: Le mie maestre dell'asilo erano delle fantastiche fricchettone, ci facevano dipingere sui muri: ricordo ancora l'imbarazzo quando mi tolsero i calzini per farmi infilare un piede nella tempera verde con cui avrei lasciato la mia impronta. C'era anche Don Mario Venece, uomo severo e raffinato, un umanista cattolico, che a sette anni mi fece vedere la stelle col cannocchiale, mi insegnò a giocare a scacchi e mi portò a dipingere in "plein air" un abbeveratoio per le vacche, spiegandomi come modulare la rotondità di una pietra con diversi strati di colore. Quella pietra è stata la mia base classica. In anni recenti (entrambi classe '58) Claudio Zambianchi e le sue favolose lezioni su Cézanne all'università di Roma, e Gianni Motti, che il 20 maggio del 2005 descriveva un cerchio perfetto di venti chilometri di diametro percorrendo a piedi il grande anello sotterraneo dell'acceleratore di particelle del CERN di Ginevra.
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